RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO :

LA VERITA’ SULLA GITA AI MONTI SIBILLINI
(FROM "New Giuda" 1° Settembre 2007)

Un pentito tra quelli che per pura incoscienza hanno avuto la ventura di partecipare alla cosiddetta “zingarata” sui Monti Sibillini, desiderando che la gente sappia la pura verità e non crei falsi miti attorno a quattro disperati (Ivano, Antonio Lino e Gualtiero) che purtroppo credono ancora di avere il fisico di trentenni, ha deciso di raccontare come effettivamente sono andate le cose; poiché dire la verità fa soffrire il racconto viene suddiviso in 2 puntate.

1.a puntata: Le Gole dell’Infernaccio

La marcia di avvicinamento alla nostra destinazione, durata oltre quattro ore per continue errate scelte di strada (compresa una presunta scorciatoia indicata dal capo guida - quindi indiscutibile - che aveva allungato il tempo di più di mezzora, giustificata con “abbiamo incontrato un camion che ha fatto tappo”) sotto un sole che già dal primo mattino si manifestava cocente, su un auto, carica all’inverosimile di zaini, valigiotte, borsoni e attrezzature varie di infima marca, che ad ogni frenata o sobbalzo precipitavano addosso agli sventurati passeggeri dei sedili posteriori e che senza colpa arrancava ad una velocità di crociera non superiore ai cinquanta alla mezzora (nuova unità di misura adottata dal guidatore Antonio in base alla convinzione che in tal modo il motore sforzava meno), utilizzando come condizionamento un filo di apertura del finestrino, aveva provocato una sindrome di progressivo accasciamento che aveva a poco a poco soppiantato la baldanza con cui ci si era ritrovati all’appuntamento ante-lucano.

Infine, anche per culo, eravamo approdati, intorno alla mezza, in un parcheggio brullo e assolato ove solo qualche altro disperato aveva lasciato l’auto (occupando peraltro le uniche zone d’ombra possibili).

Dopo esserci bardati con i nostri scarsi e poco efficaci mezzi (tra cui un nuovo paio di racchette acquistate da Alfio per alcuni del gruppo Tiburzi, tra cui Gualtiero, rilevandole da uno stock di rimanenza del grande supermercato specializzato in trekking LIDL, al prezzo di pochi euro), avendo cura di lasciare un filo di apertura nei finestrini della vettura nella speranza che la manovra avrebbe potuto mitigare il calore che sicuramente avremmo trovato al ritorno, ci siamo incamminati per una lunga sterrata avendo nella mente il miraggio delle Gole dell’Infernaccio magnificamente descritteci dal nostro (mai abbastanza osannato) mentore Ivano (a farci caso mentore è molto simile a mentitore).

Il primo impatto con le fatidiche gole l’avemmo con delle filame di pioggia discendenti da alcune rocce dette poeticamente, come con enfasi ci spiegò Ivano, “le pisciarelle”; difatti sentimmo subito un inconfondibile puzzo di orina, dovuto probabilmente al fatto che tutti quelli che passavano di lì, noi compresi, alla vista di questi getti naturali, manifestavano un immediato bisogno di imitazione che praticavano perlopiù nello stesso anfratto vicino a queste rocce.

Dopo aver seguito in controcorrente, e quindi a salire, il piccolo ruscelletto insinuato nelle gole dell’Infernaccio, che davvero a nostro avviso derivavano il loro nome dal calore canicolare che vi si soffriva (amplificato altresì dall’orario in cui avevamo iniziato la nostra impresa), ed aver già alcuni di noi lamentato per la sudata e per i primi crampi da fame, la nostra (mai a sufficienza osannata) guida (che Dio l’abbia in gloria e che Satana lo mandi all’inferno, anzi all’infernaccio), ebbe l’idea di farci prendere un sentiero che, apparentemente all’ombra di un pendio boscoso, saliva con una pendenza inimmaginata verso l’agognata salvezza (purtroppo solo dell’anima) offerta dall’eremo di S.Leonardo dove, predicava il nostro, avremmo trovato un sicuro ristoro (…all’anima ….de li mortelli sua); era questa la continua litania che almeno due di noi (indovinate chi: Gualtiero e Antonio, Lino notoriamente parla poco) rivolgevano con devozione all’indirizzo della nostra (mai abbastanza lodata) guida, visto che il sentiero diventava sempre più ripido, noi sempre più fracidi di sudore e molli di gamba e della meta non si vedeva l’ombra (ombra che spesso latitava anche sul sentiero del percorso).

Ormai allo stremo giungemmo su un piccolo pianoro dove, quasi nascosto dai rami di grandi alberi da cui scendevano nugoli di zanzare pronti ad assalire i malcapitatati specie se sudati, sorgeva l’agognato eremo da cui peraltro non giungeva alcun segno di vita; eppure la piccola chiesa era aperta e dopo una breve visita ci eravamo quasi rassegnati a ripartire, quando la nota a tutti curiosità di Lino ci richiamò sul retro della chiesa (cui si accedeva solo attraverso un cancelletto di una ringhiera debitamente chiuso e che solo Lino, come al solito, era riuscito a forzare). Ben nascosti in un angusto ma sufficiente e panoramicamente eccellente spazio tre sante persone, tra cui lo schivo eremita padre Giorgio, cercavano di dissimulare con la massima disinvoltura la preparazione, in realtà molto evidente, di un pranzo con i fiocchi (solo per loro); si percepiva benissimo che quattro inaspettati ospiti non invitati e soprattutto sudati e puzzolenti avrebbero guastato il festino e malgrado la nostra (mai abbastanza magnificata) guida cercasse con la sua parlantina di interessare gli interlocutori sulle popolazioni preistoriche e villanoviane delle civiltà appenniniche insistendo particolarmente sugli scambi, anche di tipo alimentare, che queste, avevano avuto con le stanziali genti umbro-sannitiche, tramite gli onnipresenti (nei discorsi di Ivano) falisci, onde strappare un invito anche solamente per benevolenza umana, costoro cui delle famose popolazioni ecc.ecc. glie ne poteva frega’ de meno, facevano orecchie da pesce lesso (solo una signora, affacciatasi brevemente ad una finestrella dell’edificio ed evidentemente affascinata dalla figura ieratica di Lino cui rivolgeva occhiate da mercante, si lasciò andare a dire “un piatto in più o uno in meno non cambia”, ed intendeva proprio matematicamente solo un piatto in più che capimmo era rivolto a Lino); quindi noi che mai avremmo permesso a Lino di sbafare una bella pastasciutta da solo, affranti ma uniti, riprendemmo il cammino verso una nuova meta decantata dalla nostra (mai sufficientemente encomiata) guida: la cascata nascosta dove avremmo potuto gustare i nostri sempre più ammosciati ed elastici panini al fresco di una grande massa di acqua discendente dall’alto.

Che questa cascata si chiamasse nascosta lo capimmo immediatamente; infatti la nostra (mai abbastanza glorificata) guida con la determinazione che la contraddistingue (“si va di qui”) sbagliò subito direzione portandoci sull’orlo di un grande fossato da cui fummo obbligati a risalire lungo un penDio (che Dio lo perdoni) irto e fangoso da cui i due meno dotati (indovinate: Gualtiero e Antonio) uscirono con fatica; qui iniziarono a manifestarsi le carenze delle nostre attrezzature: una delle nuovissime racchette di Gualtiero (della fornitura garantita da Alfio che ben si era guardato dal venire a collaudarle con noi) intrappolata nel fango si divise in due e non fu possibile ricomporla; ricoverati i 2 pezzi nello zaino e risaliti sul sentiero (finalmente quello giusto) non trovando in vista i due compagni che, come ogni tanto spesso accade, presi dalla frenesia, avevano fatto una delle frequenti fughe in avanti, nel tentativo di recuperare terreno Gualtiero perdeva uno dei due pezzi della racchetta che spuntando dallo zaino si era impigliata nei rami e Antonio a causa dei duri e scomposti sassi su cui si camminava iniziava un ciabattamento a seguito di scollamento suola delle famosissime Timberland prese negli anni 80 dal Montana (il Montana, per chi non lo sapesse fu il primo extracomunitario che introdusse a Roma in quegli anni i primi esemplari imitati e taroccati delle Timberland che iniziavano in quegli anni a diventare un oggetto di cult; per Antonio nel frattempo erano diventati un oggetto di culto).

Finalmente guidati dal rumore dell’acqua e dal desiderio di un attimo di riposo anche i due ritardatari (Gualtiero con una racchetta e mezzo ed Antonio con una suola in mano cui subito si aggiunse la seconda) raggiunsero gli altri che si erano già sistemati ai bordi della cascata: il rude Ivano a torace nudo (non tanto per imitazione della buon anima del duce di cui è noto estimatore) ma perché aveva già provveduto a lavare l’unica maglietta intrisa di sudore e di altri miasmi stendendola al sole e Lino, come noto grande raccoglitore di tutto, che mostrava orgoglioso un piccolo cespo di fragoline di bosco che non erano sfuggite alla sua rapacità (e che dietro sua insistenza sono state immortalate nella foto pubblicata sul sito) con l’intenzione di portarle a Civitavecchia per farne l’esemplare iniziale di una coltivazione intensiva (va subito detto che dopo i mosci panini ci siamo gettati su quelle fragoline – una a testa - come frutta/dessert).

Malridotti ma un pò rinfrancati riprendemmo la via del ritorno che fu abbastanza penosa soprattutto per Antonio che praticamente camminava come se avesse ai piedi spartane espadrillas (note scarpette spagnole di tela e corda) anzichè le robuste Timberland che continuamente piangeva cercando da ognuno di noi la conferma che forse un buon calzolaio avrebbe potuto rimetterle in sesto (prima che se ne accorgesse la moglie) e per la contrarietà di Gualtiero visto che il solito furetto Lino gli aveva ritrovato lo spezzone della racchetta precedentemente perduto, impedendogli quindi la soddisfazione di buttarle per acquistarne altre nel solito supermercato specializzato in trekking LIDL e dimostrare ad Alfio una scelta migliore ovviamente ad un prezzo ancor più basso; in compenso il nostro (mai perennemente osannato) faro Ivano, contando sulle nostre sofferenze giustificava per causa nostra (ma si vedeva chiaramente che andava molto bene anche a lui) l’impossibilità di mantenere il programma iniziale (come sempre pianificato sulle potenzialità che forse ci arridevano quaranta anni fa) che prevedeva anche la risalita alla foce del fiumiciattolo Tenna (quello per intenderci che scorreva ignaro e senza colpe nelle gole dell’Infernaccio); nessuno osò contraddirlo, ciascuno rimpiangendo ad alta voce la sfortuna che ci impediva una così interessante aggiunta alla già bellissima escursione ma ringraziando in cuor proprio la generosità interessata del capo; anzi, per nulla riconoscenti al povero Tenna lo abbandonammo del tutto preferendo alle sue rive tortuose e scomode una galleria umida e buia che però accorciava di gran lunga il cammino e quando fummo a metà di questa intravedendone l’imbocco e quindi la fine delle nostre pene, qualcuno (non si può dire chi fu, perché protetto dall’oscurità) rilasciò i fino allora tenuti stretti sfinteri provocando un rimbombo terribile accompagnato da pericolosa (in quanto incendiabile) emissione gassosa.

Come avevamo immaginato ci aspettava rovente nella calura un’auto che malgrado l’accorgimento dei finestrini appena abbassati era infuocata, per cui all’unanimità si decise di raggiungere il primo abitato per una meritata bevuta atta a recuperare i liquidi abbondantemente lasciati per strada; facendo confusione tra Monte Monaco, Montefortino ed altri monti che sembravano messi apposta nella carta geografica e sui cartelli stradali per confonderci le idee, arrivammo ad un bel paesino medioevale praticamente disabitato (forse la gente del posto per il caldo e l’ora se ne stava ovviamente chiusa in casa) e con grande fatica riuscimmo rintracciare l’unico bar del posto: chiuso (era il suo giorno di chiusura ed evidentemente era il nostro giorno di sfiga); Gualtiero individuò non si sa come un ristorante non ancora chiuso dopo il pranzo e non ancora aperto prima di cena, in cui un addetto vedendoci così ridotti non ebbe il coraggio di rifiutarci una rinfrancante bevuta di birra (con rutti al seguito) che però ci obbligò a consumare in un angolino misero e fuori dalla vista di qualcuno, forse per non compromettere il buon nome del locale che stava dando ospitalità a quattro straccioni.

Infine dopo altre peregrinazioni arrivammo all’albergo fissato per due notti e tutti si precipitarono nelle loro camere appena assegnate, da dove poco dopo si udì uscire solamente un sonoro russare, indice di quel che ci si era proposti di fare: un piccolo riposino prima di cena.

La cena fu una degna conclusione della giornata e fu consumata, essa sì, con lo stesso appetito che avevamo quaranta anni fa: questo purtroppo non ci è mai diminuito.

    BY G.CALIUMI - GRUPPO TREKKING TIBURZI.

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